IL PERCHÈ DEL PERCHÈ!

IL PERCHÈ DEL PERCHÈ!
ultimo aggiornamento 04 November 2023
di Damiano Domenico Maria Trenchi

Sin dall’inizio dei tempi questa parola che può assumere le funzione di avverbio interrogativo, di congiunzione e perfino quella di pronome relativo, è sempre stata sulla bocca di tutti gli esseri umani: dai neonati che chiedono perché attraverso gli occhi e le lacrime, ai bambini che chiedono il perché di qualsiasi cosa riescano a toccare, vedere e sentire, agli adolescenti che cominciano a chiedersi il motivo per cui l’amore faccia così male e così bene allo stesso tempo, fino agli adulti e agli anziani che si chiedono perché vivano e perché debbano morire.

Nella maggior parte dei casi è difficile trovare delle risposte ai perché, ma in qualche modo, pur non arrivando mai ad una risposta definitiva, gli esseri umani ci provano per tutta la loro vita, fino allo sfinimento, fino a farla diventare una crociata personale perché si ha fame di sapere e di conoscere. Allora ricordo che tempo fa mi è stato chiesto da una persona a me molto cara, con quale parola assocerei il concetto di scuola e io risposi proprio con perché. Avrei potuto dire di associarla con sostantivi più assonanti e similari al concetto di scuola come istruzione, didattica, emozione, esperienza, voto, nota, banco, lavagna, libro e qualsiasi altro fino a scadere perfino nell’ovvio e nel banale, ma senza pensarci un attimo mi venne in mente proprio la parola perché usata con funzione di avverbio interrogativo. Ora più che mai in un mondo dell’istruzione in cui si guarda più al business che al vero scopo per cui una insegnante o un insegnante è lì, in classe, questa mia risposta mi torna alla mente con forza e voglio condividerla con voi.

In questo terzo millennio, cominciato con un paio di decenni burrascosi e difficili, tutte e tutti, a loro modo, si domandano se la scuola abbia ancora un significato vero e proprio oppure se è semplicemente un passaggio obbligatorio della vita di ciascun essere umano, ridotta allo stremo delle sue forze, composta da insegnanti di scarso livello, frustrati e demotivati che non incarnano nessun valore se non quello di essere dei numeri all’interno di una leadership scolastica che il più delle volte non valorizza i suoi dipendenti e che pensa solo a promuovere senza merito e a limitare i danni all’immagine di un sistema scolastico che cade a pezzi, ma che, proprio grazie a quei dipendenti, a volte accantonati, messi in un angolo, poco supportati, criticati e poco motivati, sta ancora in piedi. È un miracolo? No, è semplicemente dato dal fatto che questa domanda, potete giurarci, è sulla bocca di tutte le insegnanti e di tutti gli insegnanti che ogni giorno si mettono in dubbio e si mettono in gioco per cercare di stare al passo coi tempi, per capire attraverso uno sguardo le necessità delle nuove generazioni e per cercare di rispondere a quei perché che, a volte, sono più laceranti di un proiettile.

Un insegnante che non si domanda in continuazione il perché di ogni singola cosa, non può insegnare perché l’insegnamento è composto da un milione di perché che apparentemente non hanno nessun senso tra di loro ma che, col tempo, lo trovano, tessendo una tela ben più fitta di quella che Penelope, moglie di Ulisse, disfava ogni notte. Chiedersi il perché significa aggiornarsi, formarsi di continuo, non accontentarsi che quello imparato al liceo o all’università possa essere tutto quello che c’è da imparare perché altrimenti ogni insegnante sarebbe semplicemente un computer in cui si installano programmi di vario genere, mentre ogni insegnante è unico e irripetibile in quanto punto di riferimento per il futuro di ciascuna studentessa e di ciascuno studente. Ogni insegnante deve essere guida consapevole di se stesso e di tutte le ragazze e di tutti i ragazzi che ha di fronte nonostante, a volte, non riesca a fornire tutte le risposte che vorrebbe dare o a mettere in atto tutte quelle cose che vorrebbe fare, ma è lì proprio perché si è chiesto il perché è ancora lì e non dietro ad una qualsiasi scrivania, magari in un ufficio buio, freddo e gelido ad interfacciarsi con scartoffie di fantozziana memoria. Un insegnante è tale perché non si è dato ancora una risposta ma la cerca con forza e il fatto che ogni giorno la cerchi con forza, non passa inosservato perché le nuove generazioni, fragili e abituate a camminare su vie troppo semplici per essere vere e reali, vedono negli occhi del loro insegnante quel perché che si illumina in ogni sua parola, che compare sui suoi occhi come se fosse una lampadina che si accende e quel perché si trasferisce direttamente in loro affinché lo plasmino, lo deturpino, lo calpestino, lo picchino, lo insultino e gli sputino perfino sopra, ma senza mai cacciarlo via perché quel perché diventerà il loro migliore amico: quello che li salverà in un momento difficile e quello che darà loro la forza quando arriveranno al punto di rottura. Tutti arrivano prima o poi ad un punto di rottura e in quel caso si hanno due scelte: lasciarsi andare e perdere completamente se stessi oppure aggrapparsi all’accento di quel perché che saprà dare la forza di guardarsi allo specchio con aria di sfida e non di preoccupazione, di ansia e di turbamento.

Tutte le studentesse e tutti gli studenti ogni volta che alzano la mano in classe è perché stanno abbracciando un perché, oppure lo stanno lanciando all’insegnante che lo accoglierà e lo passerà di nuovo a colei o a colui che ha avuto il coraggio, la forza e voglia di mettersi in gioco alzando una semplice mano. Eppure il perché più importante sarà sempre quello che ogni studentessa e ogni studente porterà a casa, quello che condividerà con la famiglia, con gli amici, con gli allenatori e con tutti coloro che incontrerà al di fuori della scuola perché quel perché potrà vacillare oppure confermarsi saldo e forte affinché possiate essere voi a lanciare il vostro perché a quelle studentesse e a quegli studenti che ancora non hanno avuto la fortuna di incontrare insegnanti impregnati di perché. Può succedere, ahimè, e quando succede, è sicuramente un dramma, ma il bello è che ogni perché non è statico, ma è in continuo movimento: può essere liquido esattamente come l’acqua, può duplicarsi, triplicarsi e così all’infinito affinché nessuno rimanga senza la possibilità di avere un posto in un branco di perché e non quel solito ammuffito posto, sempre disponibile, in un branco di iene o sciacalli che adorano rubare e cibarsi degli avanzi degli altri.

Perché si va a scuola?

  • Per migliorarsi.
  • Per ricevere un’educazione.
  • Per studiare.
  • Per socializzare.
  • Per imparare a vivere.
  • Per disegnare il proprio futuro.
  • Per essere autonomi.
  • Per sapersi organizzare nella vita.
  • Per imparare un metodo.
  • Per scrivere.
  • Per parlare.
  • Per contare.
  • Per fare sport.
  • Per creare ricordi bellissimi o meno belli.
  • Per trovare l’anima gemella.
  • Per sapersi innamorare.
  • Per imparare a perdere.
  • Per crescere.
  • Per sapersi orientare.
  • Per scoprire.
  • Per essere curiosi.

E poi? Tutti quelli che avete in mente perché la scuola è la perfetta metafora della vita. E noi viviamo perché vogliamo essere felici, così andiamo a scuola per scoprire la felicità dentro ogni perché.  

Ho usato 36 perché per scrivere questa riflessione.

Troppi? Forse sì, per un testo come questo.

Troppi? Forse no, per una scuola che deve essere costruita perché dopo perché.

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